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   S.ANTONIO ABATE
   

La giovinezza  |  Padre del Monachesimo  |  La morte  |  Protettore degli animali  |  Il Fuoco di S. Antonio   

  La giovinezza


Antonio, di origine egiziana, nacque intorno al 250 a Coma (oggi Quemar), sulla costa occidentale del Nilo, nel cuore dell'Egitto, presso Eracleopoli, da genitori nobili, abbastanza ricchi e cristiani, per cui anch'egli fu allevato nella fede cristiana.
Intorno al 270, quando aveva 20 anni, Antonio rimase orfano, insieme ad una sorella più piccola di lui. La sua vocazione trovò un momento determinante dopo questo luttuoso evento quando udì le parole del Vangelo: "Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi"
Antonio sentì questo invito come rivolto a lui e vendette le sostanze paterne, assicurò i mezzi di sostentamento alla sorella che, a causa della sua scelta, sarebbe rimasta sola e distribuì infine ai poveri tutto quanto gli restava e si ritirò in un luogo solitario.
All'inizio si stabilì non lontano dal suo villaggio, per condurre, in completa solitudine, una vita eremitica, tutta dedita al lavoro, alla preghiera e alla lettura delle Sacre Scritture.
Già in questo primo periodo il demonio lo tentò in diversi modi, cercando di dissuaderlo dalla vita contemplativa, ma Antonio gli resistette sottoponendosi a penitenze sempre più rigorose. Vegliava a lungo e mangiava una sola volta al giorno dopo il tramonto. Si nutriva soltanto di pane ed acqua. Per dormire gli bastava una stuoia, ma dormiva per lo più sulla nuda terra.
Dopo poco si trasferì in un'antica grotta scavata nel fianco di una montagna, la cui ubicazione era nota soltanto ad un suo fedele amico.
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 Padre del Monachesimo



Nel 285, quando ormai aveva 35 anni, interruppe qualunque relazione umana ritirandosi in un vecchio rudere abbandonato, sul monte Pispir, ad est del Nilo, In quel luogo visse circa 20 anni, isolato dal mondo e vietando l'accesso a chiunque, anche all'amico fedele che gli gettava i viveri al di sopra delle mura di cinta.
Trascorso questo periodo, molti si recarono da lui con l'intenzione di condurre una simile vita ascetica, e fu così che su quelle alture sorsero i primi monasteri abitati da monaci, che si ponevano sotto la guida spirituale di Antonio, per questo è detto "Abate" (dall'aramaico: abba, "padre").
Quando nel 311 iniziò la persecuzione dell'imperatore romano d'oriente Massimino Daia, Antonio lasciò la solitudine per recarsi ad Alessandria e sostenere ed assistere i suoi fratelli cristiani. Ma, nonostante avesse preferito il martirio, ebbe salva la vita, così si ritirò sul monte Qolzoum, distante trenta miglia dal Nilo, qui si mantenne coltivando un piccolo appezzamento di terreno, i cui prodotti venivano condivisi con coloro che andavano a trovarlo per essere istruiti nella vita ascetica. La fama della sua santità era ormai nota in tutta la regione e molti si recavano per chiedere grazie e guarigioni. Nel 338, Antonio, all'età di 87 anni, dovette tornare ad Alessandria per combattere l'eresia ariana, condannata dal concilio di Nicea (325), che negava la natura divina di Gesù. Ritornato al suo eremo, si ammalò e predisse ai due discepoli Macario e Amathas, a cui aveva concesso di far vita comune con lui, la sua morte imminente e lasciò loro il suo testamento con la proibizione di manifestare ad alcuno il luogo della sua sepoltura e ciò per sottrarre la sua salma agli onori.

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 La morte



Antonio si spense all'età di 105 anni, il 17 gennaio del 356 nel suo eremo sul monte Qolzoum.
La Vita di Antonio fu scritta, negli anni immediatamente successivi alla morte, da S. Atanasio, suo amico e contemporaneo, in essa è riassunta la dottrina ascetica del santo eremita. L'opera fu tradotta in latino nel 388 da Evagrio di Antiochia.
S. Eutimio, abate in Palestina nel 473, ne fece celebrare la festa il 17 gennaio e fu presto imitato da Costantinopoli e dall'Occidente, dal momento che la fama della sua santità si era già diffusa in tutto il mondo cristiano.
Il luogo della sepoltura di Antonio rimase sconosciuto per circa due secoli. Verso il 561, sotto l'imperatore Giustiniano, fu scoperto il suo sepolcro per mezzo di una rivelazione. Le reliquie, trasportate ad Alessandria furono deposte nella chiesa di S. Giovanni Battista, ma, verso il 635, in occasione dell'invasione araba dell'Egitto, furono portate in luogo sicuro a Costantinopoli. Da qui, nel sec. XI, passarono in Francia, recate da un crociato al suo ritorno dalla Terra Santa. In Francia, in quel periodo, sorse l'ordine ospedaliero degli "Antoniani" approvato da Urbano II (1088-1099), il Papa che aveva indetto la prima crociata. La chiesa costruita per accoglierle fu consacrata dal papa Callisto II nel 1119. Vicino ad essa sorse un ospedale condotto dagli Antoniani, che accoglieva numerosi pellegrini che vi si recavano per invocare il Santo che godeva la fama di guarire il "fuoco di S. Antonio".
In seguito, nel 1491, le sacre reliquie furono traslate nella chiesa di Saint Julien et Antonio ad Arles. Da qui, sul finire del secondo millennio, sono state trasferite nella Cattedrale di Saint Trophime, sempre ad Arles.














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 Protettore degli animali


Fu la gente dei campi ad eleggerlo universalmente come protettore degli animali domestici, estremamente importanti in una società, allora, essenzialmente agricola. Antonio stesso si era dedicato al lavoro della terra, dalla quale aveva tratto il suo sostentamento. Ancora oggi nelle stalle si affiggono le immagini di S. Antonio. Non vi è dubbio che tale caratteristica lo ha collocato come protettore della "corporazione degli asinari" e quindi del Cero di S. Antonio.
Egli viene di solito rappresentato come un vecchio monaco, dalla lunga barba bianca, avvolto in un ampio saio. Alcuni elementi caratteristici accompagnano la figura del Santo:
Il bastone. Nell'iconografia più antica il bastone si presentava nella sua forma normale. In seguito prese la forma di "tau", cioè di T dell'alfabeto greco. Questo simbolo verrà anche applicato come distintivo sul mantello del Santo. Il bastone a tau fu adottato come emblema dell'ordine di S. Antonio fra il 1160 e il 1180, probabilmente in memoria della stampella che il santo usava in vecchiaia.
Il campanello. Questo elemento si può ricollegare all'usanza dei monaci di S. Antonio di allevare maiali vaganti in libertà e mantenuti dalla carità pubblica. Questi animali erano riconosciuti da un campanello attaccato al collo o ad un orecchio.
Il porco. Il motivo per cui ai piedi di S. Antonio viene rappresentato un maialino potrebbe significare la protezione del Santo su questo animale e su tutti gli animali domestici, oppure rappresentare il demonio che, sconfitto dal Santo, è condannato a seguirlo docilmente. Altro motivo potrebbe dipendere dal fatto che gli Antoniani allevavano maiali, con il grasso dei quali curavano il cosiddetto "Fuoco di S. Antonio".
Il libro. Il libro che il Santo regge nella mano in molte raffigurazioni richiama alla mente la REGOLA da lui scritta per i monaci.
La fiamma. Il fuoco che appare nelle immagini del Santo può essere ricollegato all'azione di S. Antonio contro il fuoco dell'inferno oppure alla sua protezione sui malati del "Fuoco di S. Antonio".
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 Fuoco di S. Antonio


Questa malattia fu nel Medioevo molto temuta, essa aveva un andamento epidemico e mieteva numerose vittime. Ma, contrariamente a quanto si crede, tale malattia non è quella che oggi chiamiamo con questo nome. Oggi con il nome "Fuoco di S. Antonio" si intende un'affezione che colpisce le cellule nervose e si manifesta con fenomeni cutanei localizzati lungo il decorso dei nervi dove compaiono, a gettata e in modo irregolare, gruppi di vescicole simili a quelle della varicella, accompagnate da dolore vivo e alterata sensibilità. Tale malattia è causata dal virus Herpes Zoster (Varicella).
Nel medioevo il "Fuoco di S. Antonio" indicava una malattia, totalmente diversa, i cui sintomi erano veramente spaventosi, oltre che dolorosissimi. Di essa si distinguevano due forme: quella "convulsiva", che si manifestava con spasmi, convulsioni e allucinazioni e quella "circolatoria", che provocava fortissimi bruciori agli arti a seguito del ridotto apporto di sangue con conseguente disseccamento dei tessuti, gangrena e necrosi addirittura di piedi, gambe, mani e braccia, che talvolta venivano amputati per impedire il diffondersi della malattia o si staccavano spontaneamente senza perdita di sangue: si diceva che gli arti erano consumati dal Fuoco Sacro e diventavano neri come il carbone.
Ovviamente nell'alto Medioevo questi sintomi, non conoscendone la vera causa, venivano attribuiti rispettivamente: a punizioni divine (per la forma circolatoria); a vita dissoluta, peccaminosa oppure a possessioni demoniache (per le forme convulsive).
In effetti non si poteva spiegare altrimenti il fatto che intere famiglie o villaggi si ammalassero improvvisamente e con sintomi così terribili. Quindi, in mancanza totale di conoscenze sulle cause reali di tali epidemie, come rimedio, s'invocò, verso il XII secolo, l'aiuto divino di S. Antonio Abate ritenuto protettore contro il fuoco, l'infiammazione e l'epilessia.
Questo fatto richiamò alla tomba del Santo numerosissimi pellegrini e ammalati che invocavano la guarigione dal fuoco che li divorava. Spesso chi si recava in pellegrinaggio otteneva immediati benefici ed anche guarigioni a differenza di chi invocava il Santo, restando a casa propria.
Le genti, ovviamente, gridavano al miracolo e non si poteva pensare altrimenti. In realtà, oggi sappiamo che la ragione di tali guarigioni è molto più semplice e molto più naturale: spostandosi dalle proprie zone di residenza i malati si nutrivano con alimenti diversi dai soliti, di conseguenza limitavano o eliminavano totalmente, dalle loro povere diete, un qualche elemento che più tardi fu identificato essere la farina contaminata dal fungo "Claviceps purpurea" detta volgarmente "segale cornuta", unica responsabile della malattia che a questo punto possiamo definire come "intossicazione di origine alimentare provocata dall'ingestione di farine cereali contenenti gli alcaloidi di un fungo", più semplicemente "ERGOTISMO".
Naturalmente come fungo non dobbiamo pensare ai funghi raccolti nei boschi, infatti la "segale cornuta" non assomiglia nemmeno un po' a questi, essendo un piccolo cornetto duro e nero che si forma, dopo un ciclo abbastanza complicato, al posto del chicco di grano contaminato dalle spore fungine, portate dal vento o da insetti. L'attacco di questo fungo genera delle sostanze (ergotamina e simili) che provocano un'intensa vasocostrizione periferica che, nei casi più gravi, può portare alla gangrena degli arti. L'intossicazione acuta si manifesta con diarrea, vomito, coliche, cefalea, vertigini, tremori, convulsioni e accelerazione delle contrazioni uterine con conseguenti parti prematuri. L'intossicazione cronica produce difficoltà nel camminare (claudicatio intermittens), dolori muscolari, freddezza, pallore alle dita fino alla necrosi degli arti. Inoltre la segale cornuta, contiene alcune sostanze allucinogene, simili al famoso L.S.D., pertanto è quasi certo che l'ingestione di alimenti confezionati con farina contaminata da Claviceps purpurea fosse la responsabile di molte follie e possessioni collettive, narrate da cronisti medievali.
I primi sospetti della responsabilità di tale fungo si ebbero nel 1125 da parte del dottor R. Dumont, ma la conferma definitiva venne soltanto nel XVI secolo da parte dei medici dell'Universitá di Marburgo. Attualmente gli alcaloidi della Segale Cornuta vengono normalmente usati in medicina nel trattamento dell'emicrania, del morbo di Parkinson e soprattutto in ostetricia per iniziare o accelerare il travaglio, per ridurre l'emorragia e per far riprendere tono all'utero dopo il parto.
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