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			Il 
			
			
			Risorgimento, fin dalle sue prime fasi filo-francesi del 
			1796-1799, vide pienamente coinvolta la città di Gubbio, sia come 
			comunità, sia attraverso alcuni dei suoi cittadini più 
			rappresentativi. Tante le figure da studiare e da approfondire: 
			ecclesiastici, politici, professionisti, artisti, tutti cittadini di 
			un piccolo centro che, posto a mezza strada tra le focose legazioni emiliano-romagnole e le statiche province romane, si trovò a subire 
			il passaggio della storia in modo non certo indifferente.  
			 
			   
			Prima di iniziare questa beve descrizione dei fatti più importanti 
			che hanno caratterizzato il 
			
			Risorgimento a Gubbio
			vorrei che sia fatta mente locale su una circostanza che da secoli 
			ha caratterizzato lo Stato della Chiesa e, quindi, anche Gubbio: 
			qui il capo dello stato e il capo della religione erano la medesima 
			persona. 
			  
			Da questa ovvia considerazione discende gran parte della storia 
			politica, economica, sociale e culturale delle nostre regioni. 
			  
			La commistione tra stato civile e stato religioso era continua e 
			inestricabile. Solo pochi esempi: i privilegi degli ecclesiastici, 
			la mano morta, il diritto del foro ecclesiastico, i diversi 
			tribunali e il diverso linguaggio usato negli stessi, la mancanza di 
			codici legislativi unici, l’avocazione dei processi, il controllo 
			della scuola e di tutti gli enti caritativi e di assistenza – 
			ospedale compreso – le modalità di elezione dei consigli comunali 
			fortemente controllati dall’apparato ecclesiastico ... tutto questo 
			vigeva qui, da noi. 
			 
			   Questo sistema che aveva funzionato benissimo per secoli e che, bisogna 
			dirlo, ha garantito lo sviluppo di molti aspetti della nostra 
			cultura, entrò in crisi alla metà del XVIII secolo. 
			 
			
			    
			Alla fine del Settecento (1796), a seguito della 
			
			prima campagna d’Italia di 
			
			Napoleone, giunsero dal nord delle strane 
			persone, con strane idee. Si trattava di gente che aveva tagliato la 
			testa al loro re e pure alla regina, aveva ammazzato migliaia di 
			nobili, preti e frati; aveva distrutto un mucchio di chiese; sulla 
			punta delle loro baionette portavano strani concetti: 
			
			libertà, uguaglianza, 
			 fraternità e una cosa chiamata 
			
			“Diritti dell’Uomo e del Cittadino”. 
  Avevano la pretesa di voler mettere la ragione al posto 
			di Dio; si erano messi in testa di capovolgere un principio più che 
			millenario secondo cui la sovranità appartiene a chi la riceve da 
			Dio, cioè al monarca che esercita il suo potere assoluto; loro, 
			invece, andavano dicendo che il potere è del popolo ed è dal popolo 
			che proviene; volevano che ogni cittadino – e non suddito – 
			concorresse alla difesa della "patria": entità misteriosa che da noi 
			iniziava e finiva alle mura che circondavano le città; non volevano 
			che si ricorresse ad un esercito mercenario; avevano un tribunale 
			unico per tutti, una legge unica per tutti; niente privilegi, niente 
			inquisizione, niente discriminazione religiosa; niente decime; 
			dicevano che bisognava sequestrare tutti i beni della Chiesa, farci 
			pagare le tasse, abolire il fedecommesso, la primogenitura, la 
			validità dei testamenti autenticati solo dagli ecclesiastici; 
			effettivamente ne volevano un po’ troppe! 
			    Ad ogni buon conto, a seguito della campagna 
			d'Italia, il 7 febbraio 1797 l’amministrazione centrale della 
			Legazione di Urbino e Pesaro comunicò il “Nuovo Ordine di Cose” 
			regolato da Napoleone stesso con apposite norme. Gubbio fu 
			“invitata” ad aderire alla 
			
			Repubblica Cispadana. Cinque 
			cittadini furono incaricati di giurare obbedienza alla Repubblica e 
			nei nuovi ordinamenti che i francesi diedero alla nostra provincia e 
			alla nostra città – credo che oramai sia noto a tutti che Gubbio 
			fece parte della Provincia (Delegazione) di Urbino e Pesaro fino al 1860 – 
			gli eugubini furono subito in primo piano. 
			
			  
			  
			Ricordo, tanto per fare un paio di esempi, Ubaldo Galeotti, nominato 
			dal giovane Napoleone commissario provinciale, e Giacinto Tei, 
			presidente della commissione amministrativa eugubina. 
			  
			Gubbio non fu esente dal 
			
			fenomeno delle insorgenze. La massa rurale, 
			strettamente controllata dalla Chiesa e forse anche per convinzione 
			secolare cercò di ribellarsi al nuovo stato di cose, 
			ma si trattò di un fuoco di paglia.  
			 
			  
			Figura assai interessante di questo periodo è mons. Ottavio 
			Angelelli, un dei pochi vescovi che sembra aver appoggiato la 
			politica napoleonica. 
			 
    Gubbio, dopo varie vicende, nell'agosto 1800, ritornò a far 
			parte dello 
			
			Stato della Chiesa. 
			 
			
			   
			Infine, tra il 1808 e il 1814 
			Gubbio entra a far parte del 
			
			Regno d’Italia. 
			  
			Tutto lo stivale, in mano a Napoleone, è diviso in soli tre stati. 
			Quelle norme che richiamavo sopra furono tutte applicate e non senza 
			problemi. La leva obbligatoria, mai digerita dai contadini, cioè 
			dagli abitanti del contado, creò molti problemi. 
			 
			   Il 
			
			Congresso di Vienna sancì il ripristino quasi in fotocopia della 
			situazione italiana al periodo antecedente al 1796 e riconobbe 
			all’Austria il ruolo egemonico negli affari italiani. 
			 
			  La bontà e l’efficacia di alcune delle riforme amministrative 
			introdotte dai francesi è testimoniata dal fatto che alcune di esse 
			furono mantenute dal 
			
			cardinale Consalvi al momento del ristabilimento 
			del potere pontificio.  
			La politica, però, tornò ad essere quella di prima. 
			   
			Il desiderio di partecipare alla cosa pubblica senza essere 
			aristocratico o possidente diventò spinta insopprimibile. Vedere 
			ristabilite tutte le vecchie regole spingerà i pochi giacobini 
			locali a tenere accesa la fiamma della ribellione. Nascono le 
			
			società segrete.  
			 
			  
			Gubbio conosce il fenomeno delle 
			
			vendite carbonare, qui operanti 
			soprattutto per divulgare tra la gioventù massime patriottiche e 
			anticlericali; anticlericali, non antireligiose.  
			  
			La prima società, denominata i “Figli di Bruto” nacque nel 
			1824 a cura di “uno straniero”. Esponenti di spicco furono 
			Giuseppe Barbi e Damiano Tondi. Poco tempo dopo furono 
			fondate altre due organizzazioni segrete: i  “Figli della 
			Speranza” e la  “Società dei Buoni Amici”, quest’ultima in 
			opposizione alla società filopapale dei “Compari”. Contro queste 
			sette operò, anche su incarico del vescovo Vincenzo Massi, Giuseppe 
			Lucarelli, ingegnere e spia pontificia: un vero personaggio da 
			romanzo. 
			 
			  
			Tra i più strenui nemici della Carboneria italiana ricordo 
			
			Agostino Rivarola – cardinal “protettore” di Gubbio – che operò soprattutto 
			nelle Romagne.  Le tre sette eugubine, per contrasti interni, 
			furono scoperte nel 1826. L’anno dopo verranno emesse le 
			condanne. Ma alcuni carbonari se ne erano già andati in esilio: chi 
			in Toscana, chi in Corsica, chi a Malta. Proprio a Malta finì 
			Giuseppe Barbi e lì, tra carbonari esiliati e spie di ogni regime, 
			finì i suoi giorni, pare avvelenato da una maga. 
			 
			  
			La nomina di 
			
			Papa Gregorio XVI, però, azzerò tutte le novità introdotte 
			da Consalvi e fece ripiombare lo Stato della Chiesa ai tempi 
			precedenti la Rivoluzione Francese; ma si illudevano.  
			 
			  
			Grande, importante e quasi del tutto inesplorata è la storia del 
			moti del 1831 a Gubbio. Eppure ci sarebbe molto da dire, a 
			cominciare dal ruolo svolto da Girolamo Beni e da 
			Francesco Ranghiasci, il quale Ranghiasci, tra l’altro, si recò 
			a Bologna all’assemblea delle Provincie Italiane Unite per votare 
			l’abolizione del potere temporale del Papa.  
			
			
			   
			Fu proprio in quel periodo, ed esattamente il 27 febbraio 1831, che 
			a Gubbio tornò a sventolare il tricolore.  
    Fu donato dalla signora Ranghiasci al contingente volontario della Guardia Nazionale e 
			portato per la città “con somma esultanza”. 
			  
			La signora Ranghiasci non è altri che Matilde Hobhouse, un 
			personaggio – l’ennesimo – tutto da riscoprire e che sicuramente non 
			fu estraneo alla conversione politica dell’illustre marito il quale 
			però, dopo il 1831, tornò devoto e umile tra le braccia della Chiesa 
			e non se ne scostò più fino alla fine. Stesso discorso per il conte 
			Beni che diventò, addirittura, consultore fiscale del Papa. 
			 
			  
			Calato il sipario sulle sette carbonare ecco affacciarsi 
			all’orizzonte colui che per quaranta anni incarnerà lo spirito 
			repubblicano per eccellenza: Giuseppe Mazzini. La 
			
			
			
			Giovine Italia 
			fece subito i suoi adepti, anche a Gubbio. Anzi, secondo quanto 
			ho trovato scritto poche settimane fa, pare che il primo 
			responsabile eugubino della nuova organizzazione patriottica sia 
			stato Giuseppe Lucarelli, la spia di cui vi dicevo poco fa. 
			  
			Gubbio, dopo i moti del ’31, è in continua fibrillazione tanto che 
			al tempo del cardinale Albani, uno che aveva stroncato anche i 
			romagnoli, gli eugubini furono definiti popolo inquieto. 
			 
			  
			Ma è difficile muoversi in un clima reazionario, dove il vescovo 
			Massi si impegnò molto per tenere a freno i pochi liberali locali. 
			Due nomi su tutti: il conte Porcello di Carbonana e ancora 
			Damiano Tondi. Furono loro i padri di quella che sarebbe stata 
			la nuova generazione patriottica e cospirativa eugubina, quella 
			degli Agostinucci, dei Leonardi, di Alessandro Domeniconi e di 
			Angelico Fabbri. 
			 
			   
			Sono questi gli anni della crisi delle grandi famiglie nobili, crisi 
			sociale ed economica.  
			   
			Le ricerche svolte in questi anni mi hanno posto sotto gli occhi i 
			numerosi drammi familiari che investirono la vecchia aristocrazia 
			eugubina, l’unica che per censo era stata in grado di generare i 
			primi esponenti del Risorgimento eugubino. Non era ancora giunto il 
			momento dei professionisti, né, tanto meno, quello degli artigiani, 
			cioè di coloro che costituivano i cosiddetti secondo e terzo ceto. 
			   
			Molte famiglie si spaccarono per avere al loro interno fratelli, 
			cugini o rami di comune ascendenza ugualmente divisi tra la fedeltà 
			al legittimo sovrano e la scelta più radicale di democrazia e 
			benessere diffuso, insomma tra il modello vecchio e assolutista e i 
			nuovi principi rappresentati allora dalla Francia e 
			dall’Inghilterra. Cito alcune di queste famiglie: Barbi, conti 
			Benamati, conti Beni, marchesi Biscaccianti della Fonte – o Fonti – 
			conti di Carbonana, Elisei, conti Fabiani, conti Marioni, Tondi. 
			 
			  
			Il 
			
			vaso di pandora fu scoperto – inavvertitamente? – proprio dal 
			monarca del tempo, il 
			
			Papa Pio IX. Nei primi due anni del suo pontificato, 
			1846-1847, Papa Mastai introdusse una serie di riforme che hanno 
			veramente dell’incredibile, almeno se rapportate al periodo 
			politicamente nero da cui veniva lo Stato della Chiesa, una stato la 
			cui intera produzione industriale era inferiore a quella di una 
			media città inglese. A Gubbio la metà del territorio era in mano 
			della Chiesa e quattro delle prime otto famiglie possidenti erano 
			forestiere. 
			   
			Amnistia, attenuazione della censura, concessione dello Statuto, 
			attivazione della Guardia Civica. Tutto sembrava avviato verso una 
			maggiore libertà.  
			Ma la lotta era tra chi voleva troppo e chi non voleva concedere 
			nulla.  
			 
			  
			Nell’agosto 1847 fu arrestato Nazareno Agostinucci. La colpa: 
			aver organizzato una cena patriottica con esposizione del tricolore. 
			Nella notte i gendarmi circondarono la sua casa, fecero irruzione e 
			trovarono l’Agostinucci nascosto in una intercapedine segreta.  
			 
			  
			Molte informazioni su questo personaggio – come sulla spia Lucarelli 
			– sono conservate presso l’Archivio Segreto Vaticano.  
			  
			Anzi, proprio grazie alla collaborazione del dott. Pierpaolo 
			Piergentili – che lavora in quell’archivio – stanno emergendo 
			notizie interessantissime sul Risorgimento eugubino che spero, prima 
			o poi, di riferire in modo adeguato.  
			  
			Per il momento sono stato autorizzato a riferire che la bandiera 
			italiana esposta dall’Agostinucci nel 1847 esiste ancora ed è stata 
			rintracciata in uno dei fondi archivistici dell’Archivio Segreto 
			Vaticano.  
			 
			  
			Torniamo al Risorgimento a Gubbio ed arriviamo al 
			
			1848. 
			   Il famoso ’48 esplose in tutta Europa con una forza dirompente. 
			 
			Non era più il tempo delle riunioni carbonare, ebbero fine i tentativi 
			di insurrezione destinati a fallire prima ancora di cominciare. Ora 
			scendono in campo interi eserciti.  
			  
			I nodi politici da scogliere, però, divennero inestricabili. Molti 
			esponenti della cultura pensarono ad una confederazione di stati 
			italiani sotto la guida del Papa. E’ il 
			
			neoguelfismo che, perlomeno, 
			garantì un’ampia e relativamente libera diffusione del dibattito 
			politico. 
			 
			  
			Ed è proprio all’interno della Guardia Civica, cioè dell’organo 
			militare locale autorizzato ed approvato, quindi operativo alla luce 
			del sole, che si svolse il primo vero e proprio processo aggregante 
			dei patrioti locali. La propaganda interna fu molto forte perché 
			Guardia Civica significava armi. Gli ufficiali nominati dal Papa, il 
			marchese Ranghiasci e il conte Carlo Della Porta, rinunciarono 
			all’incarico. I Fabiani Massarelli furono i protagonisti di questa 
			nuova situazione. Appoggiarono gli esponenti più liberali e decisi 
			nella loro azione di penetrazione. All’interno della Guardia Civica 
			si forgiò gran parte dell’apparato patriottico eugubino. C’erano 
			tutti! 
			 
			   Nella primavera del 1848 anche i volontari di Gubbio partirono per i 
			confini dello stato. E’ la grande illusione. Il 29 aprile Pio IX 
			calerà il velo: niente guerra all’Austria, niente unità d’Italia, 
			neanche quella immaginata dai neoguelfi. 
  Questa presa di posizione 
			gli costerà cara perché sarà alla base di quella esperienza 
			straordinaria, seppur brevissima, che fu la 
			
			Repubblica Romana del 
			’49 a cui anche Gubbio diede il suo rispettabile contributo. Cito il 
			conte Ubaldo Marioni che, dopo essere stato eletto a suffragio 
			universale all’Assemblea Costituente romana, fu spedito da Mazzini a 
			Londra come ambasciatore della Repubblica presso la regina Vittoria. 
			   
			Che dire poi dei giovanissimi Bruni e Tinti che seguirono Garibaldi 
			fino a Cesenatico? 
			 
			   
			Ma accanto al discorso militare non si può certo dimenticare quello 
			delle idee, quello della situazione economica e sociale in cui 
			versavano gli eugubini. 
    I tempi stavano cambiando rapidamente e 
			l’elemento cittadino era sempre più propenso ad appoggiare il moto 
			rivoluzionario. Erano pochi, è vero, ma non si è mai vista una 
			rivoluzione fatta da tutto un popolo. Sono sempre in pochi quelli 
			che agiscono. 
			 
			  
			Cosa si pretendeva poi dalla campagna i cui abitanti erano poco meno 
			di servi della gleba? E non certo per colpa loro. 
			  
			Cosa si pretendeva dalle centinaia di mendicanti che vivevano delle 
			elemosine delle istituzioni clericali? 
			  
			Cosa si poteva chiedere ai tanti artigiani che dovevano la loro 
			sopravvivenza al lavoro loro affidato dai conventi e dai monasteri? 
			  
			Cosa dovevano fare gli organi politici locali quando per l’elezione 
			del Consiglio Comunale avevano diritto di voto neanche 200 persone, 
			compresi una quindicina di sacerdoti e una ventina di monasteri, 
			conventi e enti ecclesiastici di vario genere?  
			   
			Cosa si poteva fare quando si finiva ai ferri per aver sventolato 
			una bandiera o ti denunciavano se andavi a fare un bicchierino la 
			domenica mattina mentre si diceva la messa? 
			   
			Come si poteva contrastare chi aveva il diritto di controllarti non 
			solo il corpo ma anche l’anima? 
			   
			Cosa si poteva fare, in quei tempi, quando ogni azione politica 
			contro lo Stato sovrano era bloccata dalla minaccia della scomunica? 
			 
			   
			Dobbiamo quindi essere grati a quei pochi eugubini che pur tra mille 
			difficoltà e rischiando in continuazione la pelle tennero viva la 
			fiamma della speranza, senza piegarsi alle bastonature degli 
			austriaci o ai pesanti rimproveri dei vescovi Pecci e Sannibale che, in 
			fondo, non facevano che difendere ciò in cui credevano.  
			   
			Ma pure i patrioti – anche se pochi – credevano! 
			 
			  
			La fine della 
			
			Repubblica Romana coincise con l’affermazione di nuove 
			idee e nuovi progetti di unità nazionale. 
			  
			Apparve chiaro come il 
			
			Piemonte – che al contrario di tutti gli 
			altri aveva mantenuto la Costituzione anche dopo l’amarissima 
			
			
			sconfitta subita a Novara – fosse oramai l’unico stato in grado di 
			guidare la riscossa nazionale. 
			   
			Furono in molti ad abbandonare le idee di Mazzini e a mettersi sotto 
			l’ala protettrice di 
			
			Casa Savoia.  
			 
			   
			D’altra parte la scelta di 
			
			
			
			Garibaldi, già idolatrato delle masse, 
			aveva aperto la strada a molti altri. Molti, ma non tutti. 
			 
			   
			Le forze in campo – e parlo di forza militare non solo di quella 
			politica – erano di tale entità che neanche uno stato relativamente 
			potente come era il Piemonte poteva battere l’Austria. Ecco il 
			motivo dell’alleanza di Torino con la Francia di Napoleone III (Accordi 
			di Plombières). Ancora un passo avanti verso altre speranze, verso altrettante 
			delusioni. E mi riferisco al 
			
			trattato di Villafranca che mise 
			anzitempo fine alla pur vittoriosa 
			
			II guerra d’indipendenza. 
			 
			  
			E’ venuto il momento di parlare di 
			
			Angelico Fabbri: ma come si fa? 
			Impossibile solo provare a sintetizzare il suo vulcanico operato. 
			Dirò soltanto che nell’estate del 1859, quando insorsero le 
			provincie della parte settentrionale dello Sato Pontificio, molte 
			città della Delegazione di Urbino e Pesaro si ribellarono. Solo 
			Pesaro e Gubbio rimasero ferme: Pesaro perché lì il delegato Bellà 
			aveva radunato tutte le forze militari della provincia; Gubbio 
			perché il Ranghiasci – secondo quanto racconta Fabbri – fu autore di 
			un bel voltafaccia. Il marchese fu talmente bravo che Pio IX, dietro 
			segnalazione del delegato mons. Bellà, lo premiò con l’Ordine 
			cavalleresco Piano e lui – Ranghiasci – fece conferire dal Consiglio 
			Comunale la cittadinanza eugubina a detto mons. Bellà! 
			 
			  
			L’anno dopo, però, la campana suonò anche per lo Stato Pontificio. 
			Una volta avuto il permesso da Napoleone III di impedire a Garibaldi 
			di raggiungere Roma, i Piemontesi entrarono nello Stato Pontificio. 
			 
			   Il 12 settembre 1860 Nazareno Agostinucci fu liberato dal carcere 
			pesarese dove era stato rinchiuso dalla fine di luglio. Il regio 
			commissario provinciale Tanari diede proprio all’Agostinucci 
			l’incarico di promuovere a Gubbio la formazione degli organi di 
			governo provvisori. Il 
			
			14 settembre mattina gli ultimi ausiliari 
			pontifici partirono per Ancona, non sapendo che di lì a pochi giorni 
			avrebbero concluso la loro missione a 
			
			Castelfidardo. 
   Proclamata la 
			giunta ed esposto il tricolore, gli eugubini rimasero in attesa 
			delle truppe piemontesi che a due ore di notte giunsero dalla strada 
			del Bottaccione.  
			 
			   
			Il tempo di stampare un manifesto celebrativo, e anche i soldati di 
			Vittorio Emanuele – dopo aver vendemmiato anzitempo nel podere della 
			Peschiera – si avviarono verso le Marche.  
			  
			Nell’ospedale di Gubbio rimasero i malati dei due eserciti, 
			pontificio e piemontese. 
			 
			
			
			  
			Il plebiscito eugubino, come quello di molte altre città, si svolse 
			senza problemi. I circa 3.900 votanti furono tutti favorevoli 
			all’annessione. 
  Certo molti di loro non sarebbero stati contenti di 
			quanto la Commissione Municipale provvisoria stava tramando, cioè il 
			passaggio di Gubbio dalle Marche all’Umbria. L’insoddisfazione 
			cittadina scoppio però alla fine di dicembre.  
			La situazione locale, però, non migliorò subito. 
			  
			Nonostante l’impegno del prefetto Filippo Gualterio che si espose in 
			prima persona – assieme a Fabbri – per garantire un prestito a 
			Gubbio. Il marchese Luigi Barbi, consigliere provinciale, si trovò 
			in grande imbarazzo quando cercò di mediare tra la commissione 
			locale – che si era dimessa in massa – e il prefetto dal pugno di 
			ferro. La gravissima crisi causata dalla demaniazione delle 
			Corporazioni religiose peggiorò ulteriormente le cose. Il Comune 
			riuscì ad avere – grazie ad abili manovre politiche – solo l’ex 
			Convento di S. Pietro dove dal febbraio 1861 trasferì la residenza 
			municipale. 
			  
			Anche i rapporti con la Curia vescovile si fecero molto tesi, tanto 
			che due sacerdoti diocesani finirono in prigione: uno per aver 
			predicato dall’altare contro il nuovo ordine delle cose, l’altro per 
			essere stato trovato in possesso di armi. 
			 
			
			
			   
			Il 1° aprile 1861 Vittorio Emanuele II nominò il marchese Luigi 
			Barbi – già gonfaloniere sotto lo Stato Pontificio, già 
			consigliere provinciale – primo sindaco di Gubbio. 
			
			
			    La scelta 
			premiava il moderatismo del marchese il quale, però, si trovò in 
			breve tempo in gravi difficoltà con l’ambiente più radicale 
			cittadino, quello che non gradiva elementi della vecchia guardia 
			alla guida della città. Per questo, nell’autunno 1861, Barbi fu 
			costretto a dare le dimissioni e la città, per vent’anni – se 
			escludiamo la parentesi del marchese Toschi Mosca – fu guidata da 
			soli tre sindaci, tre protagonisti molto attivi del Risorgimento 
			locale: Emilio Benamati, Alessandro Domeniconi e 
			
			Angelico Fabbri, 
			quest’ultimo da considerare indubbiamente come l’ultima punta di 
			diamante della recente storia eugubina. 
			
			
			                                
			
			
			
			
			                 
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