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   CRONACA NERA A GUBBIO NELLA PRIMA META' DELL'1800
   


Cronaca Nera a Gubbio nella prima metà dell'ottocento

Dalla relazione di Fabrizio Cece tenuta il 31 marzo 2008 in occasione
della X settimana della cultura, presso l'Archivio di Stato di Gubbio

omicidi comuni che comportarono la condanna a morte
  |  omicidio "politico"
omicidio di cui si ha la sola notizia | tentato omicidio  |  suicidio o tentato suicidio
morte per disgrazia, per calamità naturale, per causa accidentale o colposa  | 
varie

 

 Premessa


   Già in una precedente dispensa pubblicata nel 2003 Fabrizio Cece ha dato conto di alcune notizie inquadrabili all’incirca come cronaca nera estratte da diverse fonti archivistiche, tra le quali alcuni (invero molto pochi) registri parrocchiali dei morti.
   Ora, per dare maggiore consistenza ai dati classificabili sotto questa tipologia, l'autore ha passato al setaccio gran parte dei registri dei morti disponibili presso gli archivi principali, tutti compresi nel periodo 1801-1850.
   A questa prima serie di documenti ho aggiunto altre notizie rintracciate in altri fondi archivistici, come - ad esempio - il cosiddetto diario Lucarelli, che - per inciso - ho già trascritto per intero, o il Carteggio Comunale.
   Molti di essi riguardano anche alcuni aspetti di cronaca giudiziaria. Si tratta per la maggior parte di materiale inedito.
   Non è stato possibile consultare il Fondo Giudiziario perché si trova depositato ormai da 11 anni presso l’Archivio di Stato di Perugia. Presso questo Fondo saranno sicuramente conservate molte notizie di reato, processi (anche per violenza carnale) e quant'altro.
   L'auspicio è che questo materiale, d'indubbia importanza, torni al più presto a Gubbio.
   Considerato che Gubbio non è mai stata sede di tribunale è possibile che il numero dei reati commessi (specie il tentato omicidio) e degli incidenti verificatisi sia superiore a quello che ho potuto documentare.
   Il materiale raccolto è stato suddiviso per “gravità”, diciamo così, del reato commesso. Oltre alle testimonianze di vera e propria cronaca nera, cioè di fatti di sangue, ho cercato di classificare anche i decessi dovuti ad altra causa. Questa è la ripartizione:
1. omicidi comuni che comportarono la condanna a morte;
2. omicidi "politici";
3. omicidi di cui si ha la sola notizia;
4. tentati omicidi;
5. suicidi o tentati suicidi;
6. morti per disgrazia, per calamità naturale, per causa accidentale o colposa;
7. varie.
   Per le notizie “minori” - punti 4, 5 e 6 - si da conto soltanto di una selezione dei documenti rintracciati.

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Omicidi comuni con condanna a morte


    Nessuno, credo, ha mai sentito parlare di Giovanni Battista Bugatti (Senigallia 1779-1869). Ma il suo soprannome, mastro Titta, è in grado di richiamare alla memoria il famoso boia pontificio, se non altro per il ruolo assegnatogli nella famosa commedia musicale “Rugantino”.
  Il Bugatti, nella sua lunghissima carriera - durata dal 1796 al 1864 - ebbe modo di svolgere il suo incarico anche a Gubbio dove eseguì
quattro condanne a morte in tre esecuzioni avvenute nel 1803, nel 1807 e nel 1817.

Il 2 maggio 1803 fu impiccato un certo Angelo Rossi di Spoleto, “sbirro”, di 27 anni, anche se il parroco del Duomo, che ci ha lasciato una breve cronaca dell’avvenimento, specifica che quello non era il suo vero nome. Nel primo pomeriggio il Rossi fu portato dalle carceri di piazza Grande alla forca, posta nella piazza del Mercato, di fronte ai “granari dello Spedale Grande”. Lì, ricevuta la benedizione papale da mons. Ottavio Angelelli, vescovo di Gubbio, il reo “fu impiccato circa le ore 15 e morì con cristiana ed edificante rassegnazione”. Il cadavere rimase esposto per circa sette ore, fino a quando la confraternita dei Neri lo depose e lo portò alla chiesa di S. Paolo - oggi demolita, che era ubicata lungo via della Piaggiola e rappresentava il luogo di sepoltura dei condannati a morte.

La seconda visita eugubina di mastro Titta si verificò il 6 luglio 1807 per giustiziare Giuseppe Brunelli e Agostino Paoletti che due anni prima avevano assassinato - per motivo passionale - Pietro Paolucci. I due eugubini furono impiccati uno accanto all’altro. Una cronaca narra in dettaglio la vicenda e le ultime ore dei due condannati i quali ebbero l’assistenza del vescovo mons. Angelelli e la sepoltura anch'essi nella chiesa di S. Paolo.

Mastro Titta fece la terza e ultima gita eugubina il 28 agosto 1817 per eseguire la condanna di Antonio Casagrande, detto Ciaccio, che sette mesi prima aveva consumato un orrendo delitto a Valdichiascio. A causa della tremenda carestia che aveva colpito molte zone d’Europa - Italia compresa - la fame mieteva quotidianamente vittime. I furti erano all’ordine del giorno. In uno di questi il Casagrande, vistosi scoperto da tre bambini, non esitò a gettarli in un pozzo. Condannato a morte “fu portato al patibolo che era posto nella piazza del mercato [...] e verso le 17 e mezzo gli fu troncato il capo con la guillottina venuta da Ancona [...]. Gli furono quindi dal carnefice tagliate braccia e piedi ed appese al patibolo. La testa poi fu collocata dallo stesso ministro di Giustizia sulla torre della Porta Marmorea [...] e sotto vi fu posta una lapide colla seguente iscrizione: Antonio Casagrande / Condannato alla morte qualificata / Lì XXVIII Agosto MDCCCXVII / Per omicidio / di tre fanciulli seguito nel Circondario / di Gubbio / con prodizione e latrocinio”.
I suoi resti furono portati al civico cimitero e sepolti in “luogo distinto”.

Il materiale da cui ho sintetizzato queste notizie è in realtà molto più articolato e in alcuni casi contiene il dettaglio dell’esecuzione della sentenza.
Esiste anche un specie di cerimoniale scritto che la Confraternita dei Neri, la quale aveva per statuto lo scopo di assistere i condannati a morte e procedere alla loro sepoltura, doveva seguire in quelle lugubri giornate.
Anzi, la cronaca di don Ubaldo Rogari, parroco della Cattedrale, relativa alla duplice impiccagione del 1807, contiene tanti e tali dettagli che se ne potrebbe ricavare tranquillamente la sceneggiatura di un film.

Dopo aver rintracciato questa documentazione - in parte nota da tempo - non ho potuto fare a meno di domandarmi chi fosse stato l’ultimo eugubino condannato a morte.
Dalle ricerche eseguite è emerso quanto segue. Premetto, naturalmente, che nella valutazione del fatto vanno esclusi i periodi bellici e considerati solo i reati “comuni”.
Il Casagrande (Ciaccio) fu l’ultimo eugubino ad essere condannato a morte con sentenza eseguita in Gubbio.

Per quanto riguarda invece
eugubini giustiziati fuori Gubbio ho trovato notizia di due di essi.
Il primo, Giovanni Vagnarelli, fu ghigliottinato l’8 marzo 1845 a Roma in via dei Cerchi: boia fu l’inossidabile mastro Titta.  L'eugubino aveva assassinato L’anno precedente una certa Anna Kotia, pellegrina proveniente dalla Baviera. Il Vagnarelli si era trasferito da Gubbio a Ronciglione (VT) e proprio in quella località fu stilato il processo.
L’episodio ebbe anche un risvolto - diciamo così - economico in quanto gli ufficiali incaricati della compilazione del processo si erano dovuti recare a Ronciglione e lì trascorrere alcuni giorni nella locanda di un certo Bissi. Questo Bissi aveva scritto al gonfaloniere di Ronciglione per chiedere il rimborso di sc. 10,50 quale spesa del vitto e dell'alloggio somministrati ai processanti. Il comune di Ronciglione, a sua volta, si era rivalso su quello di Gubbio, luogo di origine del Vagnarelli. Una volta appurato che il reo “non avea domicilio fisso in Ronciglione”, spettò “al luogo di nascita” il pagamento della predetta somma di sc. 10,50. Il comune di Gubbio pagò tale somma il 13 aprile 1847.
Da notare che all’esecuzione del Vagnareli fu presente nientemeno che Charles Dickens, lo scrittore inglese autore de: Il circolo Pickwick, Oliver Twist, David Copperfield.
Nella sua pubblicazione "Lettera dall’Italia", Dickens ricorda l’esecuzione con un lungo paragrafo. Eccone una sintesi: “(...) Un sabato mattina (l'otto marzo), qui un uomo venne decapitato. Nove o dieci mesi prima, aveva rapinato per strada una contessa bavarese diretta in pellegrinaggio a Roma - da sola e a piedi, ovviamente - mentre compiva quell'atto pietoso, si dice, per la quarta volta. La vide cambiare una moneta d'oro a Viterbo, dove egli viveva; la seguì; le offrì la propria compagnia lungo il viaggio per quaranta miglia o più, con l'infido pretesto di proteggerla; la assalì, portando a compimento il suo inesorabile piano nella campagna, a brevissima distanza da Roma, presso ciò che viene denominata (senza esserlo) la Tomba di Nerone; la derubò; e la percosse a morte con lo stesso suo bastone da pellegrino. Era sposato da poco, e regalò alcuni dei beni della vittima alla moglie: dicendole che li aveva comprati ad una fiera. Ella, tuttavia, che aveva visto la contessa-pellegrina attraversare la loro città, riconobbe alcune chincaglierie che le appartenevano. Suo marito allora le raccontò ciò che aveva commesso. Ella, in confessione, lo riferì ad un sacerdote; e l'uomo fu catturato, entro quattro giorni dopo aver commesso il crimine.
(...) Dopo un breve lasso di tempo, alcuni monaci dalla detta chiesa furono visti avvicinarsi al patibolo; e sopra le loro teste, avanzando lentamente e tristemente, l'effige di Cristo in croce, bardato di nero. Questa fu trasportata attorno alla base del patibolo, fin sul davanti, e girata verso il criminale affinché potesse vederla fino all'ultimo. Era a malapena giunta a destinazione, quando costui apparve sulla sommità del patibolo, scalzo; le mani legate; e col collo della camicia tagliati fin quasi alle spalle. Un giovane uomo - circa ventisei anni - di robusta costituzione, e ben proporzionato. Pallido il viso; baffetti scuri e capelli bruni.
Apparentemente, aveva rifiutato di confessarsi senza prima fargli incontrare la moglie; così era stata inviata una scorta a prenderla, ciò che aveva cagionato il ritardo.
Si inginocchiò subito, sotto la lama. Il collo, posizionato in un foro, realizzato all'uopo in un ceppo orizzontale, fu serrato da un simile ceppo situato superiormente; proprio come in una gogna. Subito sotto di lui era una borsa di cuoio. E in questa la sua testa rotolò all'istante.
Il boia la teneva per i capelli, camminando tutt'intorno al patibolo, mostrandola alla gente, prima ancora di potersi render conto che, con un secco rumore, la lama era pesantemente scesa.
Quando ebbe fatto il giro dei quattro lati del patibolo, fu fissata in cima a un palo sul davanti - una piccola chiazza bianca e nera, che la lunga via poteva scrutare, e su cui le mosche potevano posarsi. Gli occhi erano rivolti in alto, come se avesse distolto lo sguardo della borsa di cuoio, e avesse guardato verso il crocifisso. Ogni colore e sfumatura vitale l'aveva, in quel momento, abbandonato. Era grigia, fredda, livida, cerea. Così era anche il corpo.

(...) Il corpo fu trasportato via a tempo debito, fu ripulita la lama, smontato il patibolo, e smantellato l'intero odioso apparato. Il boia: un fuorilegge EX OFFICIO (quale ironia sulla Giustizia!) che per la vita non osa traversare il Ponte di S. Angelo se non per svolgere il proprio lavoro: si ritirò nella sua tana, e lo spettacolo poté dirsi concluso.(...)”.

L’ultimo eugubino condannato a morte di cui ho trovato traccia fu tale Agostino Salciarini, originario di Petazzano, nato attorno al 1798.
Ho potuto rintracciare la sentenza della sua condanna a morte del 1853 che così recita:
“55 anni, cattolico, conjugato con prole, già contadino, per diciotto titoli processato fra cui otto volte condannato per furti all’opera pubblica e alla Galera; una volta per rapina armata mano alla Galera perpetua: evaso il 20 Agosto 1840 dalle carceri di Urbino, ed indiziato d’aver commesso nel tempo di sua contumacia altra rapina nell’anno 1842, un evasione con ferite nel 1843, un tentativo di rapina, ed altra rapina con omicidio nell’anno 1844, altra rapina nel 1847; e un conato d’invasione nel 1848, - veniva arrestato dalla forza pontificia di finanza la notte del 21, al 22 Agosto 1852, sulla pubblica strada presso il torrente Carpina, sotto Montone, e poco lungi dal capo luogo del governo di Fratta, mentre armato d’uno schioppo a due canne cariche, d’una pistola a due canne cariche, d’un coltello con lama acuminata, e munizioni, stava per commettere un contrabando con altro individuo che trovò scampo nella fuga. Perquisito poi personalmente, fu trovato possessore d’una gregorina da scudi 10, due colonnati, sei svanziche, e un Orologio d’argento.
Istruitosi la relativa inquisitoria quanto al titolo di delazione d’armi e munizioni, rilevato legalmente il fatto in genere, e tradotto oggi il predetto inquisito d’avanti all’I. R. Giudizio Militare Statario, risultò esso in ispecie contabile dell’addebitatogli reato, con circostanze aggravanti, e venne perciò a voti unanimi, in base della Notificazione 8 Giugno 1850, A. 2. condannato alla pena di Morte mediante fucilazione, oltre alla confisca delle appresegli armi e munizioni, e alla rifazione delle spese processuali verso il Pontificio Governo. La presente sentenza pienamente confermata fu eseguita oggi alle ore tre pomeridiane nel solito luogo fuori di Porta Pia.
Ancona 18 Luglio 1853
Il comandante
CONTE HOYOS Generale”
.
   

                                               

 Omicidi politici


Sotto questa definizione ho inserito alcuni episodi verificatisi durante il Regno d’Italia (1807-1814) e nel periodo dell’occupazione di Gubbio e di parte dello Stato Pontifico da parte di Gioacchino Murat.
L’11 aprile 1813 alcuni finanzieri francesi sorpresero Piero Cozzari dalle parti di Montelovesco, quindi sul confine tra il Regno d’Italia - di cui faceva parte Gubbio - e l’Impero napoleonico - a cui fu aggregata la Legazione di Perugia. L’eugubino, di 44 anni, fu creduto contrabbandiere, - “estrattore di merci” come recita il documento - e pertanto i militi fecero fuoco all’istante. Il Cozzari, colpito al petto, morì subito.
Qualche mese dopo toccò a Vincenzo Panfili, di 24 anni, abitante a Casamorcia. Questo omicidio, però, fu ancora più odioso del primo. Infatti, a causa della renitenza alla leva, i militi dipartimentali, forse su incarico del vice prefetto Giovanni Battista Locatelli, si mostrarono inflessibili nel dare la caccia ai giovani che tentavano di evitare il servizio militare, specie dopo la catastrofe della campagna di Russia. Il 5 agosto 1813 i soldati sorpresero il Panfili e gli spararono. Vincenzo, colpito alla coscia, morì dissanguato. Il suo cadavere fu ritrovato il giorno dopo, “vicino alla fonte dei signori Balducci, fra il granturco”.

Nell’aprile 1815 si verificò la nota ribellione contadina quando il governo murattiano, che aveva occupato parte dello Stato pontificio dopo la caduta di Napoleone, decise di richiamare in servizio alcuni ufficiali del precedente regime tra i quali, appunto, il vice prefetto Locatelli.
Il 3 aprile 1815 i contadini eugubini insorsero, disarmarono la Guardia Nazionale e prelevarono dalla casa Magni posta di fronte alla scalinata di S. Maria dei Servi, il capo della Guardia Nazionale Luigi Panichi e lo stesso vice prefetto Locatelli.
I due furono linciati e uccisi.
Così lasciò scritto don Niceforo Bartolini, parroco di S. Giovanni:
“Il vice Prefetto indicato, dietro a varj colpi di moschetto e di bajonetta restò vittima di morte. Il sig. Luigi Panichi poi, che avea eccitata la venuta del sudetto vice Prefetto, tolto da un camino, ove erasi nascosto, confessato appena, con segni di contrizione le più certe, fu fucilato da’ contadini medesimi nella piazza del Mercato, di mia giurisdizione parrocchiale, dalla quale fu processionalmente depositato in deposito il suo cadavere nella chiesa detta degli Angioli e quindi tumulato la mattina nella parrocchia di S. Pietro a cui il defunto apparteneva”.

                                                     

 Omicidi di cui si ha la sola notizia


Tra i tredici omicidi commessi a Gubbio di cui ho trovato notizia ne ho scelti alcuni sui quali riferire in dettaglio:

Il 19 ottobre 1802, per esempio, Francesco Rossi di anni 50, oriundo di Colpalombo, residente nella frazione di Piazza, venne a rissa con alcuni esponenti della famiglia Cernicchi in seguito alla quale restò ucciso - e qui cito il documento - “per colpa di cortellate, mazzarellate ed archibugiate da questi sparate [cioè dai Cernicchi], senza precisamente sapersi da chi”.

Il 1° novembre 1811 morì un sergente francese, di circa 20 anni, tre giorni dopo che aveva duellato con un suo compagno. Fu sepolto nella chiesa di S. Pietro.

Leggiamo ora cosa scrisse il notaio Luigi Lucarelli nel suo diario sotto la data 24 giungo 1822:
“Ho creduto far memoria di una brutalità di nuova idea, cioè di un padre che ha dato oggi delle coltellate con ferite mortali ad un figlio ed una figlia per non averlo aspettato a pranzo. Questi è Sebastiano Rosetti detto Boccone, artiero falegname abitante preso la chiesa di San Giuliano”.

Uno degli omicidi più crudeli, vista anche la provenienza e l’età delle persone coinvolte, accadde nel 1832. Il 7 dicembre di quell’anno fu sepolto in S. Domenico il conte Filippo Benamati, di 22 anni, dopo essere morto dissanguato per una ferita riportata alla coscia destra con taglio della arteria femorale. La ferita - scrisse il parroco nell’atto di morte - era stata causata da un ferro sul quale il Benamati era andato a conficcarsi dopo essere caduto dal ramo di una pianta mentre si trovava a Loreto, nella tenuta dei suoi familiari.
Le indagini svolte, però, giunsero ad una conclusione sorprendente. Il 7 dicembre dell’anno seguente, infatti, fu arrestato Bentivoglio, fratello di Filippo, con l’accusa di fratricidio. Dopo essere stato incarcerato nel forte di S. Leo, Bentivoglio fu processato e condannato a 10 anni di galera.
Anche questa vicenda fu romanzata da Vincenzo Giovagnoli nel 1939: Il racconto di zia Nottemburga
«Una sera d’inverno, dopo cena, ululando per camino la gelida bora, la vecchia zia Nottemburga mi narrava una storia lontana.
[...] “Ma che mi sono sognata la scorsa notte! Nientemeno che ancora ero una bambina di cinque anni, io che adesso ne conto settantasei! E che giravo, attorno alle sottane della mamma come se fosse ora! Si può fare un sogno più strano? E che era venuto a trovarci dalla sua vigna il nonno Giovanni, e che, come allora solevamo, noi fanciulletti ci eravamo ficcati fra le sue ginocchia accanto al fuoco, specchiando il nostro visino nei lucidi galloni d’oro del suo rosso panciotto.
E questo, là nel paese che mi diede la culla, dove io non penso tornare, come non tornerò più mai a quei tempi cotanto remoti.
Con quale triste risonanza devo riandare a quegli anni dai tragici fatti!
Quando era già grandicella, infierivano odi settari che riempivano le fanciulle di paura, che sboccavano in cupi delitti per le anguste vie del paese nell’oscurità della notte.
Al mattino voci sinistre correvano: “Hanno ucciso un uomo”!
“Ma chi è? ma come è stato”?
E gli uccisori restavano ignoti.
Ma nel grigiore del passato è in me più netta la visione di un fosco meriggio:
Stavo quel giorno pensosa dietro alle vetrate di una finestra della mia casa, allorché alle mie orecchie pervennero alti clamori di un fiero alterco.
Abbassato lo sguardo sulla strada, ivi scorsi due giovani che, a mano armata, si erano avviluppati in una atroce zuffa.
Riconobbi i due fratelli, conti Benamati, della nobile famiglia che abitava il vicino palazzo.
Benché fratelli e cresciuti sotto un unico tetto, erano essi tuttavia diversi per carattere e pensiero: nemici di parte, ché l’uno era papalino e religioso, l’altro libertario e miscredente, stavano fra loro in aperto contrasto, in continuo litigio.
Ma intanto quale orribile vista! Ripensando a tanto truce scena, pur oggi sento corrermi il brivido che mi rese quegli anni impaurita.
Giacché vidi uno dei due arrestarsi ad un tratto, soffocando un grido, indi piegarsi a terra con angoscia, comprimendosi il petto insanguinato .. e poi cader per non levarsi più.
L’assassino gittò il coltello e fuggì via come un pazzo. Ma fu arrestato e tradotto in prigione.
La madre dei Benamati da tempo era rimasta vedova. Dalle finestre del suo palazzo ella poteva vedere le carceri, poste sul fastigio della Torre Pretoria, oggi Municipio, nella città alta, là sotto le ferrigne rocce del monte.
E, durante il lungo periodo del processo, essa scorgeva il figlio affacciarsi, pallido, all’inferriata di una cella.
Quel figlio era il solo che le restava. Su di lui aveva concentrato ormai tutto l’affetto.
L’amor materno lo aveva perdonato, e seguitava a compatirlo, a scusarlo, a crederlo vittima di un fatale errore; quasi lo riteneva innocente del tutto.
I giudici lo avrebbero certamente assolto. E sperava rivederlo, il figlio, ed attendeva il momento di riabbracciarlo in casa, dove lo aveva cullato bambino.
Dopo quanto era successo, egli avrebbe fatto senno, abbandonato la politica e condotto vita esemplare... Avrebbe sposato una buona fanciulla... Oh gioia! Così essa sarebbe rientrata in quella vita, che ormai le pareva preclusa.
L’anima le si apriva alla necessaria speranza. E dalle finestre, fiduciosa, ella sorrideva al figlio, ed agitando il fazzoletto, gli parlava, coi cenni, da lontano.
Ma... quando il fratricida fu condannato a morte, il cuore materno che fino allora, sebbene vacillando, aveva resistito, ruppe al cumulo del dolore.
Ed ella fu pazza. I dorati corridoi del palazzo Benamati risuonarono ora di strida furiose, or di risate incoscienti per le crudeli, dolenti memorie di sua prole che fu.
Trascorsero molte stagioni, volgendo con alterna, diversa vicenda, da quel misfatto, ormai caduto nell’oblio.
Ma io sempre rivedeva la pazza affacciarsi alle finestre e riguardare sorridente alla montagna, e col fazzoletto in mano conversare, a cenni, verso la vuota prigione del figlio giustiziato.
E la gente passava per la via mormorando: ‘W la pazza dei Benamati’.
Ed i monelli ridevano, inconsci”».


Ancora dal diario Lucarelli:
[29 ottobre 1838]
“Oggi dopo pranzo uno scelerato Fra Luigi Scelba di Montecastrilli francescano professo studente in questo convento di San Francesco ove stava a studio da circa tre mesi della età di anni 22 circa ha ucciso l’ottimo padre fra Egidio D’Andrea Napoletano ex guardiano di detto convento e mio buon amico. L’ha sorpreso in camera ove stava leggendo ed a colpi di mazzarella gli ha fatto 22 ferite in testa per le quali senza poter parlare è morto dopo poche ore. Lo iniquo è fuggito subito dal convento e si è rifugiato in quello de’ Cappuccini, ove è stato arrestato. Non si conosce la causa motrice di tale assassinio”.
     

                                                     

 Tentati omicidi


Tra i vari tentati omicidi che ho potuto documentare merita di essere riferito quello che vide coinvolta, suo malgrado, la spezieria Fabbri. Non mi riferisco, però, all’attività condotta da Angelico Fabbri, ma a quella di suo nonno Giacomo che nel 1806 era ubicata proprio di fronte alla fonte di S. Giuliano, meglio nota come fonte del Bargello.
Tutto prese il via da una denuncia fatta dal Fabbri il quale si accorse che qualcuno gli rubato 2 once di una sostanza pericolosa detta “cantarella”.
Dagli atti processuali emerse quanto segue.
Il Fabbri teneva nella sua bottega alcuni allievi tra i quali Serafino Ricciardi di Costacciaro, dell’età di circa 19 anni e il ventenne Vincenzo Calandri di S. Martino. Giacomo chiese a tutti se nella bottega fosse capitato qualcuno per “chiedere dette Cantarelle, o qualche altra cosa della Speziaria che potesse fare morire”.
Si venne così a sapere che un certo Arcangelo Rosetti aveva fatto simile richiesta. Ad uno dei giovani il Rosetti giunse a dire che “voleva un veleno per ammazzare una vecchia di cui ne dovea avere l’eredità”.
Il Rosetti era stato allontanato dalla città più volte da Giacinto Elisei perché sospettava una relazione con la propria moglie. Secondo quanto affermato dall’Elisei tra loro due vi era della ruggine.
Tra le deposizioni appare interessante quella di Francesco Maestri, “semplicista e botanico” di Gualdo. Egli si era recato alla spezieria del Fabbri, “che sta in faccia alla fonte di S. Giuliano” per avere i soldi di certe vipere che egli aveva portato lì. Poco lontano dalla porta d’ingresso il Maestri aveva visto per terra della cantarella.
In base a tutte queste testimonianze il Rosetti fu carcerato.
Ne ignoro la sorte.

Cito ora alcune note tratte dal diario Lucarelli:

7 novembre 1822
“Un figlio della Meletti di anni 12, per nome Pasquale Mei, dette in rissa per giuoco alcune coltellate al giovane Giacomo figlio del signor Ubaldo Pagliari di anni 14, per le quali fu portato all’ospedale in grave pericolo di vita. Il Meletti fuggì e si sottrasse alle perquisizioni della giustizia. Il ferito stette all’ospedale circa due mesi e ne sortì ristabilito”.

29 gennaio 1826
“La sera vi fu lite fra diversi giovani e restò gravemente ferito per colpo di stile un certo Palmi ... detto Guappetto. I feritori Gioacchino Uccellani e NN Campana fuggirono a Firenze”.

15 ottobre 1827
“La sera ad un’ora di notte, dirimpetto la chiesa della Misericordia fu data una coltellata a Michele Rossi, detto Gasparino, da persona che correndo inferaiolata, nella somma oscurità, non venne conosciuta”.

19 novembre 1929
“Questa sera a due ore e mezzo di notte è stato assalito nella contrada di Fonti il signor Giuseppe Benamati ed ha riportato varie ferite mortali per cui è in grave pericolo di vita. Si ritiene che sia stata faccenda di gelosia per una certa signora Giulia Vagnozzi (però si ristabilì dopo alcuni giorni)”.

                                                     

 Suicidio o tentato suicidio


   Ho trovato documenti su sei casi.
   A mo’ di esempio ne cito solo uno, anche perché richiama subito alla mente situazioni attuali ancora oggi:
   Il 17 gennaio 1829 “verso un’ora di giorno si è gettato da una finestra il giovanetto Carmine Bettelli, figlio di Gaetano, detto Ciaccio, dell’età di circa anni tredici. Scolaro di grammatica superiore in questo ginnasio comunale aveva dato circa un’ora prima un colpo di temperino al giovane sig. Bentivoglio Benamati suo compagno di scuola; ritornato a casa pel timore che il padre lo percotesse acremente si gettò dalla finestra e si teme molto della di lui vita”.

                                                     

 Morte per disgrazia, calamità naturale, causa accidentale o colposa


Morti per annegamento

Naturalmente la maggior parte delle morti registrate nei registri parrocchiali e testimoniate da altre fonti non riguarda fatti immediatamente riconducibili alla cronaca nera, ma anche e soprattutto eventi luttuosi di più scontata natura.
Ho cercato di classificare anche questi.
Devo dire che sono emersi dei dati statistici assai interessanti.
Ad ogni modo ne riporto alcuni.

Dal 1801 al 1850 a Gubbio, che aveva una popolazione dimezzata rispetto a quella della seconda metà del XX secolo, si registrarono ben 28 casi di annegamento. E’ come se dal 1951 al 2000 fossero affogati 56 eugubini: una enormità!

Ho diviso anche i luoghi di decesso:

- Bottaccione (3);
- Chiascio (3);
- Assino (2);
- Saonda (2);
- fosso S. Bartolomeo di Burano (2);
- fiume di Loreto;
- Mussino;
- formola delle Baldella, zona S. Marco;
- gorgo di Paolozzo, parrochia di S. Agostino;
- troscia, Petroia;
- Cavarello;
- Peschiera;
- Rasina;
- fosso di S. Andrea, tra Vallingegno e Serra Brunamonti;
- molino Costi nella parrocchia di S. Secondo;
- fiume nella parrocchia di S. Secondo;
- Lana, Montelovesco;
- Dana, Montelovesco;
- fosso della Vaccara, Colpalombo;
- fossa Casamorcia;
- fosso Nogna;


Morti per caduta

Anche qui sono emersi dei dati abbastanza sorprendenti.

- undici persone morte per essere cadute da un albero;
- cinque persone morte cadendo dalle scale di casa;
- quattro decessi per cadute nel fuoco del camino (tra le quali va inserito il noto pittore Annibale Beni) o per motivi connessi al fuoco;
- tre muratori caduti dall’edificio in cui stavano lavorando.

Interessante la tragica fine di Francesco Garbucci e Giuseppe Smacchi morti per caduta durante l’evasione del carcere nel 1801.

“Garbucci Francesco dell’Ospedale di anni 25 detenuto in queste carceri laicali con altri cinque i quali demolito il muro sotto la cornice della finestra del cancello di ferro del suddetto carcere che è chiamata Larga, dalla parte di mezzogiorno, e in detta apertura avendo legata una fune di fasce di lenzuolo, bende di lino e camicie legate con i lacci delle scarpe, attraverso essa [buca] uno dopo l’altro uscirono fino alla via chiamata dei Monti, circa la mezzanotte; ma tre soltanto dei detti detenuti evasero incolumi e degli altri due il predetto Francesco giunto all’ultima cornice che è sopra la porta del magazzino pensando di avere i piedi in terra subito lasciò la fune per fuggire in fretta e cadde subito in mezzo alla strada. Gravemente leso all’interno del suo corpo in seguito, sano di mente fino al termine della vita, fu munito dei Sacramenti della Confessione, dell’Estrema Unzione e della Comunione e dopo la raccomandazione dell’anima morì alle ore tre e un quarto della stessa notte”.

“Giuseppe Smacchi coi ceppi ai piedi detenuto come sopra per la stessa fune descritta sopra, quando pervenne alla finestra della biblioteca, rottasi la detta fune cadde parimenti in terra perpendicolarmente e gravemente ferito all’interno subito delirò fino alla fine della vita”.

Si verificarono poi 10 casi classificabili come morte per caduta di varia natura:

- 2 casi per rottura dei vergoli del solaio di casa;
- 1 caso di caduta da una rupe lungo la strada del Bottaccione;
- il tragico caso della piccola Rufina, figlia dei signori Marino Marini e Anna Carandini che nel giugno 1826, quando aveva appena tre anni, cadde dalla finestra di casa; la situazione si ripeté nel 1840, quando Benedetto Fronduti - di 4 anni - morì cadendo dal balcone di “casa Caprignone” e nel 1845 quando toccò a Dario Baldoni - 12 anni - cadere dal muro dell’orto di casa nel sottostante Cavarello;
- il caso del reverendo Angelo Fabiani, canonico della Cattedrale, che all’età di 80 anni si era messo a pulire il muro di casa dall’erbaccia e mentre eseguiva tale pulizia cadde nella sottostante via e morì;
- ricordo la piccola Carolina Spogli, sei anni, che nel marzo del 1840 fu ritrovata morta sotto un tronco di quercia.


Morti per fulmine

Tra il 1810 e il 1842 furono sei le persone morte a causa di un fulmine.
Memorabile quanto accadde verso le due del pomeriggio dell’8 settembre 1835. Ce lo racconta il solito notaio Lucarelli:

“Oggi alle 3 circa dopo il mezzo giorno ha incominciato uno scroscio d’acqua ed un temporale [...] che ha arrecato moltissimi danni. Sono caduti molti fulmini che hanno ucciso molto bestiame e due persone, cioè il buon religioso Di Beda Maria Volpi nostro monaco camaldolese che stava facendo orazioni nella chiesina della Serra Partuccio ove stava in villeggiatura una parte di questa religiosa famiglia, e un contadino sulla strada di Scheggia. Molte bestie sono anche perite per l’alluvione. Il temporale ha continuato tutta la notte dal martedì al mercoledì. Tutti i fiumi hanno straripato in modo tale che non vi era memoria di casi simili. All’ora di notte del martedì le acque del Camignano erano giunte sopra il ponte di San Martino invadendo tutte le case contigue e il mercato era coperto dalle acque di detto fiume”.

Il 9 settembre 1835 fu ritrovato morto sotto una quercia Sante Carobini, di 77 anni, colpito da un fulmine.
Il 10 luglio 1842, invece, cadde un fulmine sul convento dei Cappuccini ed uccise il guardiano: padre Colombo Viventi da Gualdo.


Morti per colpo accidentale di arma da fuoco.

Ho trovato traccia di 4 casi.
Il più impressionante fu certamente quello che si verificò a Pieve d’Agnano nell’agosto 1812. Ce lo racconta il parroco, don Andrea Damiani:

Agostino figlio di Domenico Cesarini e di Maddalena consorte alla Casella Bebi, di anni ventitre, nel dì 2 del suddetto mese, giorno di domenica, tornando dalla pieve d’Agnano, ove si era portato per udir la messa, essendosi ivi confessato e comunicato, si trattenne nell’aja del Petreto a discorrere colli colonj di quel predio che stavano spulando il grano, quindi sopraggiunse il padre esortandolo di far ritorno a casa per custodirla dovendo gli altri venire alla messa di mezzogiorno ed egli resistendo e così diverbiando col padre e togliendogli il dovuto rispetto, nell’atto che proferì alcune obrobriose parole, si scaricò da se stesso un archibugio che portava in mani e rimase colpito in faccia, per cui la botta troncogli il naso, cavandogli gl’occhi e penetrò sino al cervello e conoscendo l’infelice che avea sopra di se la mano punitrice di Dio, dimandò perdono al genitore che accorso era a sollevarlo da terra e richiese il Curato e immantinente restò privo di loquela e di sentimenti. Poscia da spettatori fu portato nella casa colonica del Petreto quindi giunsi io, ed avendolo trovato in quel miserabile compassionevole stato altro non potei fare, che disporlo all’assoluzione de peccati e del Sacramento dell’olio santo; e continuando a sopravvivere lo munii della benedizione papale (...) e finalmente dopo una penosissima agonia di sette ore rese lo spirito al suo creatore avendo dalla ferita sgorgato tutto quanto il suo sangue (...)”.


Varie

Concludo questa sesta sezione con alcune notizie non classificabili sotto i precedenti punti.
Ricordo, innanzitutto, la morte di dei due campanari Ubaldo Ercoli, detto Fagiolo - “rimasto colpito dal battocco che gli ha fracassato la regione frontale” -, e Andrea Ronchi, detto Tittone - schiacciato dal campanone contro una colonna della cella campanaria -, morti colpiti dal Campanone nel 1834 e nel 1835.

Vi furono anche casi di persone uccise da animali e precisamente da un bue. Il secondo caso si verificò nel 1838 durante il cosiddetto steccato che si tenne nella piazzetta di S. Lorenzo.

Due persone uccise da massi: una donna mentre passava davanti alla chiesa di S. Caterina sul monte di S. Ubaldo e un uomo mentre percorreva la strada del Bottaccione. Nel primo caso la tragedia fu causata da un “ragazzaccio” - così è indicato nel documento - che aveva fatto rotolare una pietra dal peso di 152 libbre (ca. 50 kg).

Purtroppo il destino fu ingrato anche con un personaggio che nella storia risorgimentale locale ha avuto il suo peso. Mi riferisco a Gordiano Piccardi che nel settembre 1849 si rese protagonista con altri compagni di un affronto verso i governanti papalini che costò abbastanza caro: a lui perché si prese 30 bastonate dagli Austriaci giunti qui in forze, alla città perché dai medesimi fu multata con la considerevole somma di 248 scudi. Gordiano morì l’8 agosto 1850 schiacciato da alcune tavole di abete che il padre - falegname - aveva comprato alla fiera di Senigallia.
 

                                                     

 Varie


Nella sezione inseriamo notizie di morti di varia natura.

- due ossessi morti dopo essere venuti a Gubbio per andare a S.Ubaldo: una donna da Fabriano e un uomo dalla diocesi di Nocera (1804 e 1807);

- carestia ed epidemia di tifo del 1816-1817; e qui cito solo il caso del 28 maggio 1817; così lo ricorda il parroco di Montelovesco:
Pietro Ceccarelli d’anni trentanove al Vignale, confessato e comunicato da me, essendo estenuato dalla fame, per cui la notte del suindicato giorno sorpreso da mortal deliquio (...) finì di vivere verso la mezza notte”.
(...) “Domenico figlio del sudetto Pietro (...) d’anni otto, nel mentre che mi portavo ad associare il padre, passò a miglior vita consumato dall’indigenza”
.

- il 16 aprile 1803 morì Anna Matteucci: “il suo male fu di puntura”;

- il 2 giugno 1809 morì nella parrocchia di S. Domenico Anastasia Brunetti-Angioli: “Era maritata in Cantiano ove dal proprio suo marito fu impestata di mal francese (Sifilide). Venne qua dai suoi genitori per guarirsi, ma essendosi il male impossessato di tutto il sangue e del corpo, dové cedere alla forza del male”.

Chiudiamo questa sequela in modo, direi, curioso.
Il 21 novembre 1831 morì tale Antonio figlio di Ubaldo Cardoni di anni “centum sexdecim”, 116! Così è scritto nei registri parrocchiali di S. Domenico.
In attesa di ulteriori verifiche sull’età di Antonio Cardoni, ammesso che sia possibile farle, leggo quanto scrisse la “Gazzetta Universale” di Foligno il 26 novembre 1831:
“Miscellanea. In Gubbio è mancato ai vivi il dì 24 novembre nell’età di Anni Centosedici Antonio Pinca Colono della RR. monache di S. Lucia. Mirabile non meno per una età si decrepita, che per una giocondissima vecchiezza conservò mai sempre colla robustezza del Corpo il vigore della mente. Pieno d’una invidiabile presenza di spirito narrava egli le cose della sua Fanciullezza, e la storia facea de’ suoi tempi, come che fossero state azioni di pochi giorni. Sempre ilare, sempre di buon’appetito, sempre sano, sempre assiduo al travaglio, né a se stesso, né alla sua vecchia famiglia il fastidio recava d’una assai prolungata canizie. E’ memorabile ciocché il nostro Antonio diceva a certuno che era venuto a vederlo per meraviglia = Voi, dicea questo Vecchio, non potete contare gli anni miei ... Son io giunto fin qua per via di una rassegnazione pienissima nelle disgrazie che non di rado mi hanno colpito, con un vitto sempre povero, e scarso, e coll’impiegare tutto me stesso nel lavoro de’ miei Campi sino al giorno d’oggi in cui non mi sento mai meglio che quando mi affatico da mattina a sera” .
 

                                                     

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